Lo sport, da sempre, è sinonimo di competizione, sudore, vittorie, sconfitte. Ma è anche un linguaggio che unisce, accorcia le distanze e racconta storie di coraggio. In questo scenario ci sono i “diversamente sportivi”: atleti con disabilità che sfidano limiti e pregiudizi per vivere la loro passione e dire, con i fatti, che è per tutti.
Oltre la retorica, la concretezza dell’impegno
Spesso si guarda agli atleti con disabilità come “eroi”. In realtà, dietro ogni prestazione ci sono allenamenti, sacrifici, dedizione. Esattamente come per chiunque pratichi con serietà. Cambia solo il punto di partenza, non l’obiettivo.
Essere “diversamente sportivi” non vuol dire fare qualcosa di eccezionale perché si è disabili. Vuol dire fare attività fisica con le proprie modalità: adattando strumenti e regole, ma lasciando intatti spirito competitivo e passione.
Il movimento paralimpico come spazio sociale
Il movimento paralimpico nasce nel 1960 a Roma. Oggi coinvolge atleti di tutto il mondo, con decine di discipline e migliaia di partecipanti. È uno dei contesti più efficaci per promuovere inclusione e autonomia.
Praticare regolarmente permette di esprimersi, trovare identità, far parte di una squadra. È una palestra di vita. Si impara a cadere e rialzarsi, dentro e fuori dal campo.
Un universo ampio e variegato
Nel contesto paralimpico esistono attività per ogni attitudine: basket in carrozzina, powerchair hockey, nuoto, atletica, calcio amputati, tennis in carrozzina, boccia, wheelchair rugby, handbike.
Ogni disciplina ha regole proprie e classificazioni per rendere la competizione il più possibile equa. Gli strumenti cambiano – carrozzine, protesi, ausili – ma lo spirito resta identico: mettersi alla prova.
Storie quotidiane, non eccezioni
Parlare di “diversamente sportivi” significa raccontare vite reali, non solo imprese. Persone che scelgono la fatica ogni giorno, per passione. Non sono eccezioni. Sono atleti.
C’è chi si allena prima del lavoro, chi viaggia ore per raggiungere la palestra, chi deve affrontare non solo l’avversario, ma anche barriere architettoniche, pregiudizi, burocrazia.
Io, ad esempio, corro con un pettorale standard e una carrozzina normale, in mezzo a migliaia di altri partecipanti. Per dire che si può fare. Che questo mondo deve includere, non escludere. Che ogni partenza è una scelta: esserci.
Il diritto alla partecipazione
L’accessibilità non è un favore. È un diritto. Per estendere le possibilità a tutti servono impianti accessibili, attrezzature adeguate, personale formato, regolamenti flessibili.
Troppo spesso ancora oggi gli impianti sono impraticabili, le competizioni non contemplano la disabilità, le regole escludono. La vera domanda da porsi è: cosa possiamo cambiare per rendere il sistema davvero aperto?
Serve un cambiamento culturale. Accoglienza, non concessione. Normalità, non eccezione. La disabilità fa parte del mondo. Anche qui.
Il ruolo della scuola
Progetti inclusivi tra i banchi
La scuola può fare molto. Progetti come “I Powerchair Sport a Scuola” fanno conoscere realtà poco visibili ma piene di significato. Portano esempi reali nelle aule. Cambiano prospettive.
Giovani e nuove abitudini
I ragazzi sono ricettivi. Vedono autenticità, impegno, voglia di fare. Accettano con naturalezza modalità diverse di partecipazione. Spesso ne restano colpiti. Perché ciò che conta davvero è l’energia che ci metti.
Scegliere ogni giorno
Essere “diversamente sportivi” è una scelta quotidiana. È affermare che anche un corpo non conforme ha diritto a esprimersi, a gioire, a stancarsi. È spingere ogni giorno – con le braccia, con il cuore – per esserci.
Ho capito che essere ultimi agli occhi degli altri può significare essere primi nella propria battaglia. Le gare sono un mezzo, non il fine. Servono a raccontare una visione più ampia: uno spazio libero, aperto, accessibile.
Sintesi
Fare attività fisica con una disabilità non è straordinario: è quotidiano. Servono strutture accessibili, regole inclusive, ma soprattutto mentalità aperte. La scuola gioca un ruolo centrale nel costruire un futuro in cui ogni corpo abbia spazio per esprimersi. I “diversamente sportivi” non chiedono privilegi, ma la possibilità di partire. Alla pari. Con dignità.