Questa non è la cronaca di una gara, ma di un imprevisto. Doveva essere la mia maratona più veloce, quella da record personale. Invece, a Rimini, ho corso un altro tipo di gara. Una maratona senza chip, senza striscione d’arrivo, ma con tante persone intorno a me e una consapevolezza nuova dentro.
Il pettorale della maratona rimasto sul letto
Da dove comincio? Forse da quella sensazione strana che avevo già da giorni. Oppure da quella sveglia che non suona per andare alla partenza, ma per cercare soccorso. Forse da quel pettorale pronto, carico di aspettative, che invece è rimasto lì, piegato sul letto dell’albergo, come a dire: “Questa volta no”.
Doveva essere la mia maratona. Quella del personal best. Quella da chiudere sotto le tre ore sì, tre ore spinte solo con le braccia, con la forza di volontà, con l’ostinazione di chi, ogni volta che gli viene detto “non puoi”, risponde “guardami”.
E invece ho guardato un soffitto bianco, con i tubi fluorescenti sopra la testa, mentre cercavo di respirare e di non farmi prendere dal panico.
L’imprevisto nella notte
Tutto è iniziato il venerdì, quando io e Monica la solita, inossidabile, imprevedibile Monica ci siamo ritrovati per preparare questa nuova sfida. Lei veniva dalla Maratona di Roma con un infortunio, e aveva deciso di accompagnarmi solo per un tratto: “Ti lascio le braccia libere, così voli”.
Sembrava un piano perfetto.
Poi è arrivata la notte.
Alle quattro del mattino sono andato nella sua stanza. I dolori erano lancinanti. Una fitta al petto, la difficoltà a respirare. Non capivo bene cosa stesse succedendo, ma sapevo che non era una cosa da ignorare. Monica, da “nonna sportiva”, è passata a “bisnonna in panico” in tre secondi netti. Ridevamo anche in quel momento, perché se c’è una cosa che non ci manca mai, è l’ironia.
Però la corsa quella vera, da lì in poi, è stata un’altra.
Un’altra corsa, un altro tipo di arrivo
Ambulanza, sirene, pronto soccorso. Tutto veloce e lento insieme. Una confusione ovattata, facce nuove, voci calme, mani precise. Rimini non era più la città della gara, ma quella che mi stava accogliendo in una corsia d’ospedale.
Non era previsto. Non così.
Ma la vita non ti chiede il permesso di stravolgere i piani. Lo fa e basta.
Grazie a chi c’era
Devo ringraziare con tutto il cuore le operatrici dell’ambulanza: gentili, rassicuranti, presenti. Poi il personale del pronto soccorso e quello del reparto dove sono stato ricoverato: medici, infermieri, OSS… tutti. Gente che sa fare il proprio lavoro e lo fa anche con umanità, cosa sempre più rara.
Quello che però mi ha colpito di più è stato vedere lo sguardo di Monica, teso ma sempre fermo, che cercava di farmi sorridere anche mentre io cercavo aria e senso in quella situazione. Lei è così: può fare a pugni con il destino, ma non lo lascerà mai vincere facile.
La vera forza non è sul traguardo
E mentre tutto intorno a me sembrava sfumare, ho capito una cosa: la vera forza non sta nel tagliare il traguardo. Sta nel restare in piedi, o nel mio caso seduto, quando tutto ti vorrebbe a terra.
Qualcuno mi ha detto: “Che sfortuna, proprio alla vigilia”. Sì, potrebbe sembrare così. Ma in realtà penso che ci sia un disegno anche in questo. Io quella mattina avrei potuto essere da solo in gara. O in mezzo al nulla. Invece ero con Monica. E sono finito in un ospedale dove ho trovato mani esperte e cuori grandi.
Un altro pettorale, un’altra occasione
Ho fatto una chiamata agli organizzatori. Sì, dall’ospedale. Ho chiesto i pettorali per il prossimo anno. Perché questa maratona mancata non è una fine. È solo una deviazione. E io di strade alternative ne ho percorse tante.
L’affetto che spinge più di ogni traguardo
Nei giorni in reparto, tra una flebo e l’altra, ho ricevuto messaggi da ogni parte d’Italia. Compagni di squadra, amici, sconosciuti che mi seguono, persone che forse non mi hanno mai stretto la mano ma mi sentono vicino. È stata una valanga di affetto che mi ha travolto più di qualsiasi linea di partenza.
Qualcuno mi ha scritto: “Claudio, sei un esempio”. Ma io non cerco medaglie. Cerco storie da vivere e da raccontare. E questa, anche se non è quella che avevo in mente, è comunque mia. E vale.
La maratona della consapevolezza
Vale ogni respiro ritrovato. Vale ogni battito controllato. Vale anche ogni lacrima che mi è scappata di notte, quando il dolore e la stanchezza si facevano sentire e io, da solo nel letto, mi chiedevo “perché proprio adesso”.
La risposta non l’ho ancora trovata. Ma ho imparato a non avere fretta.
La vita non è una gara da cronometrare. È una corsa di resistenza, fatta di tappe impreviste, di salite inattese e anche di soste obbligate.
La foto di una maratona diversa
E allora sì, questa non è stata la maratona del personal best. Ma forse è stata quella della consapevolezza. Quella che mi ha ricordato quanto sono fortunato ad avere chi mi sta accanto, a partire da Monica.
Lei che mi prende in giro anche quando ho l’ossigeno attaccato. Lei che trasforma un momento di paura in un racconto da ridere. Lei che non mi lascia mai indietro.
Non corro per dimostrare, ma per esserci
So già che tornerò. Che ci sarà un altro pettorale. Un altro traguardo da immaginare. Un altro chilometro da spingere. Non perché devo dimostrare qualcosa. Ma perché è così che vivo: spingendo. Non solo le ruote, ma tutto me stesso.
Questa foto che abbiamo scattato in ospedale – con il viso un po’ stanco e le occhiaie da combattente – per me è già un simbolo.
È la foto di una maratona diversa.
Una maratona fatta di resistenza interiore. Di respiro ritrovato.
Di sorrisi anche nel momento sbagliato.
Alla prossima partenza
Alla fine, ogni gara insegna qualcosa. Questa mi ha insegnato che non si corre solo per arrivare. Si corre per esserci. E io, anche da un letto d’ospedale, c’ero.
Grazie Rimini, per come mi hai accolto.
Grazie a chi si è preso cura di me con professionalità e rispetto.
Grazie a chi ha scritto, chiamato, pensato.
E grazie a te, Monica. Perché anche quando tutto si ferma, tu trovi sempre il modo di rimettere in moto la mia voglia di vivere.
Ci vediamo il prossimo anno, alla partenza.
Con un nuovo pettorale, e la stessa voglia di esserci. Sempre.