Oscar Pistorius: La corsa che ha cambiato tutto

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Oscar Pistorius: La corsa che ha cambiato tutto
Oscar Pistorius ha corso con due protesi alle Olimpiadi di Londra 2012, cambiando per sempre lo sport. Poi ha ucciso la sua compagna. La sua storia è luce e ombra, e va raccontata tutta.

Oscar Pistorius è stato un simbolo potente e, allo stesso tempo, controverso. Ha fatto la storia dello sport mondiale correndo con due protesi in fibra di carbonio e qualificandosi per i Giochi Olimpici del 2012. È stato osannato come “Blade Runner”, visto come l’uomo che ha cancellato la linea tra sport olimpico e paralimpico. Poi la sua parabola è crollata: nel 2013 ha ucciso la sua compagna Reeva Steenkamp. Da quel momento, tutto è cambiato. Ma per capire chi è stato Oscar Pistorius, bisogna guardare entrambe le facce della sua storia: quella dell’atleta che ha sfidato l’impossibile, e quella dell’uomo che ha fallito nel peggiore dei modi.

Le origini e l’infanzia

Oscar Pistorius nasce nel 1986 a Johannesburg, Sudafrica. A 11 mesi gli vengono amputate entrambe le gambe sotto il ginocchio: una malformazione genetica ha impedito lo sviluppo delle ossa peronali. Cresce in un ambiente sportivo e competitivo. I genitori lo trattano come un bambino qualunque, senza compatimenti. Oscar usa protesi fin da piccolo. Corre, gioca a rugby, fa surf, lotta. Ha una grinta fuori dal comune. Non si sente mai “inferiore” agli altri, anzi. Vuole fare tutto come e meglio degli altri.

L’inizio della carriera sportiva

Oscar Pistorius dopo un infortunio al ginocchio nel rugby, si avvicina all’atletica leggera. È il 2004. In pochi mesi, a 17 anni, vince la sua prima medaglia d’oro alle Paralimpiadi di Atene nei 200 metri. Da lì parte la sua scalata. Diventa l’atleta paralimpico più veloce al mondo. Gareggia nei 100, 200 e 400 metri. Il suo stile è inconfondibile: falcata ampia, ritmo spietato, movimenti meccanici eppure potenti. I media lo ribattezzano “Blade Runner”. Ma Oscar non si accontenta delle Paralimpiadi. Vuole correre anche con gli atleti normodotati.

La battaglia per correre con tutti

Oscar Pistorius dal 2007 inizia la sua vera sfida: ottenere il diritto di partecipare alle competizioni olimpiche. La IAAF (Federazione internazionale di atletica) inizialmente lo esclude: secondo alcuni studi, le sue protesi in fibra di carbonio gli darebbero un vantaggio meccanico. Oscar e il suo team contestano questa tesi. Portano la questione davanti al TAS (Tribunale Arbitrale dello Sport). Dopo mesi di dibattiti scientifici e tecnici, nel 2008 il verdetto arriva: Pistorius ha diritto di gareggiare con tutti gli altri. È una sentenza storica. Da quel momento in poi, si apre un nuovo capitolo nello sport: quello dell’integrazione reale, al di là delle etichette paralimpico/olimpico.

Londra 2012: l’apice

Oscar Pistorius nel 2012 fa la storia. Si qualifica per i Giochi Olimpici di Londra nei 400 metri piani. Indossa il pettorale con il Sudafrica, si schiera in pista insieme ai migliori al mondo. Lo stadio è pieno. Il mondo lo guarda. Arriva fino in semifinale. Non vince, ma nessuno se lo aspettava. Quello che conta è che è lì. Con loro. Alla pari. Poi, sempre a Londra, partecipa anche alle Paralimpiadi. Vince l’oro nella staffetta 4×100, l’argento nei 200. È l’unico atleta a partecipare a entrambe le versioni dei Giochi. È l’apice della sua carriera. E, apparentemente, della sua vita.

Il crollo: Reeva Steenkamp

Ma tutto cambia pochi mesi dopo. La notte del 14 febbraio 2013, Pistorius spara e uccide la sua fidanzata Reeva Steenkamp, modella e attivista sudafricana. Dice di averla scambiata per un ladro. Le indagini, però, rivelano una relazione complicata, segnata da tensioni. Il processo è mediatico, lungo, controverso. Viene prima condannato per omicidio colposo, poi la sentenza viene cambiata in omicidio volontario. Alla fine, nel 2016, viene condannato a 6 anni di carcere, poi aumentati a 13 anni e 5 mesi. Il campione cade. L’eroe si trasforma in colpevole. L’opinione pubblica si divide. C’è chi lo difende, chi lo condanna. Ma una cosa è certa: la sua immagine non sarà mai più quella di prima.

L’eredità sportiva

Oggi, Oscar Pistorius è fuori dalla scena. Ha scontato gran parte della sua pena. Ma il segno che ha lasciato nello sport rimane, anche se oscurato dai fatti. Ha aperto una porta. Ha mostrato che le barriere tra “abili” e “disabili” possono essere abbattute. Ha costretto il mondo dello sport a interrogarsi su cosa sia davvero l’equità, la tecnologia, il corpo. La sua storia ha cambiato le regole. Ha ispirato atleti, ha creato precedenti, ha fatto riflettere. E questa parte, pur dolorosa, fa parte del suo percorso.

Una storia con due facce

Oscar Pistorius è stato tutto: talento, determinazione, simbolo, errore, crollo. È impossibile raccontarlo in un solo modo. È stato un campione che ha sfidato ogni limite. E un uomo che ha compiuto un atto irreparabile. Il suo lascito è complesso. Non lo si può cancellare, né glorificare. Va guardato per quello che è: un racconto umano, fragile, crudo.

Perché parlarne qui?

Perché raccontare la disabilità non significa solo mostrare i “buoni esempi”. Significa raccontare la realtà per intero. Anche quando è scomoda. Anche quando si rompe. Oscar Pistorius ha fatto cose mai viste nello sport. Ha messo in crisi i confini. Ha fatto sognare e poi deluso. Ma in quel tratto di pista che ha corso, ci ha lasciato una domanda: cosa significa essere “pari”? E forse è lì che dobbiamo ancora correre.

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