C’è una frase che ripeto spesso, quasi fosse un mantra: “Dalla parte degli ultimi per sentirmi primo.” Non è solo uno slogan, è la sintesi del mio percorso. Una strada che ho costruito spingendo la mia carrozzina, metro dopo metro, tra maratone, sport, incontri e battaglie silenziose. Non mi sento un eroe, solo una persona che ha scelto di trasformare le difficoltà in opportunità e di mettersi in gioco, sempre. Per me stesso, ma anche per chi viene dopo.
La scintilla che ha acceso il fuoco
La prima volta che ho visto la Maratona di Roma era il 2010. Ero tra gli spettatori, ma dentro di me si è acceso qualcosa. Guardavo quei volti sudati, stanchi, ma fieri. E ho pensato: “Chissà se un giorno ci sarò anche io.” Da quel giorno non ho più smesso di sognare.
Nel 2017 ho partecipato per la prima volta, spingendo la mia carrozzina normale, con un pettorale normale. La sera prima un fisioterapista mi aveva detto che non sarei riuscito a percorrere nemmeno 10 km a causa di una lesione alla spalla. Non dissi nulla. Il giorno dopo, sotto un diluvio, ho affrontato quei 42 km. Al 30° km ho avuto un principio di ipertermia, ma ho tenuto duro. Ho tagliato il traguardo in 6 ore e 59 minuti. È stato il mio primo, vero atto di ribellione contro un sistema che non sempre crede in noi. Ed è lì che tutto è iniziato.
Correre per cambiare il mondo
Da allora ho corso ovunque: RomaOstia, Verona, Palmanova, Giulietta & Romeo, Rimini. Ogni gara ha una sua storia, un ostacolo superato, una lezione imparata. Alla Maratona di Verona mi si è rotto lo schienale della carrozzina al 15° km. Ma non mi sono fermato. Perché ogni metro spinto è un messaggio chiaro: “Noi ci siamo.”
E non corro con una carrozzina da corsa, ma con una normale. Perché voglio portare un messaggio forte, di inclusione autentica. Voglio dimostrare che non c’è bisogno di adattarsi a un sistema già esistente, ma che possiamo essere noi a cambiare le regole del gioco. Ogni pettorale che indosso è una dichiarazione d’amore per la vita e un atto di resistenza contro le esclusioni ingiuste.
Il campo da gioco che diventa famiglia
Lo sport per me non si ferma alle gare. Da sei anni pratico Powerchair Hockey con i Tigers Bolzano, un’esperienza che mi ha cambiato profondamente. Questo sport è adrenalina pura, tattica, cuore e squadra. Sul campo siamo tutti alla pari. Non importa quanto puoi muoverti, ma quanto ci credi, quanto dai. Lì ho trovato una famiglia, una comunità che parla la mia stessa lingua fatta di passione, sacrificio e voglia di dimostrare.
Ma c’è stato anche un altro capitolo, breve e potente, che mi ha lasciato dentro un segno profondo: i Madracs Udine. Nonostante la distanza – quasi 600 km – lì mi sono sentito a casa. Una seconda casa vera, calda, viva. Udine ti rapisce. Ti prende il cuore e non te lo restituisce più. Ti fa vivere la vita come una favola, fatta di persone vere, spiriti combattivi e sorrisi che ti accolgono come fossi sempre stato uno di loro. Anche se stai lontano, anche se arrivi da un’altra città, lì sei parte di qualcosa. E questo, credetemi, vale più di qualsiasi vittoria sul campo.
La scuola come punto di partenza
Da questo spirito nasce anche il progetto che porto avanti con la Federazione Italiana Paralimpica Powerchair Sport: “I Powerchair Sport a scuola”. L’obiettivo è semplice e rivoluzionario: raccontare lo sport paralimpico ai ragazzi, dentro le aule. Il 3 dicembre 2024, in occasione della Giornata della Disabilità, sono stato al Liceo Linguistico Carducci con Klaivert Taka. L’attenzione, le domande, l’energia dei ragazzi ci hanno fatto capire quanto bisogno ci sia di conoscenza, contatto, umanità.
Da lì è nata la proposta di un vero e proprio calendario scolastico per diffondere la cultura dell’inclusione attraverso lo sport. Perché il cambiamento vero parte dai giovani, dalla scuola, da chi avrà domani in mano le chiavi della società.
La forza nelle cicatrici
Non è sempre stato facile. Ho affrontato operazioni, dolori fisici, chiusure mentali. Nel 2017, dopo la mia prima Maratona, sono stato operato alla spalla all’ospedale di Vipiteno. Ma ogni ferita è diventata parte di me. Non la nascondo, la porto come una medaglia invisibile. Le cicatrici raccontano la verità, quella che spesso non si vede sui social, ma che vive dentro di noi ogni giorno.
Ci sono state notti in cui ho pensato di smettere. In cui mi sono chiesto: “Ma chi te lo fa fare?”. E poi bastava pensare a un ragazzo disabile che sogna di correre, di giocare, di essere visto. A lui, a lei, a tutti loro devo questo percorso. E allora mi rimetto in strada. Spingo, ancora.
La musica e le mie radici
In tutto questo, non sono mai stato solo. Ho la mia famiglia, le persone che mi vogliono bene. E ho la musica. In particolare quella di Ultimo, che mi accompagna da sempre. Le sue canzoni mi parlano, raccontano il mio viaggio. “Ti dedico il silenzio”, “Buongiorno vita”, “Piccola stella”… sono colonne sonore che mi guidano, mi spingono avanti quando le forze sembrano mancare.
E poi c’è la scrittura. Raccontare, condividere, documentare ogni passo, ogni sfida. Non per ricevere applausi, ma per costruire ponti. Per mostrare che la disabilità non è un limite, ma un’altra forma di libertà, di movimento, di resistenza.
Oltre ogni traguardo
Oggi continuo a correre. Ma non corro solo per me. Corro per chi non ha ancora avuto la possibilità. Corro per chi è stato lasciato indietro. Corro per dire che il mondo può essere più giusto, più aperto, più umano. Lo faccio con le mie braccia, con il cuore, con le parole.
Il mio sogno non è tagliare traguardi cronometrici, ma abbattere barriere culturali. E magari, ispirare qualcuno a mettersi in gioco. Perché, alla fine, la vera vittoria è sentirsi parte del mondo. Tutto intero.