Emmanuelle Laborit: in un mondo che corre dietro al rumore, Emmanuelle Laborit ha scelto di restare nel silenzio. Ma non in disparte. Attrice, scrittrice, attivista, ha fatto della Lingua dei Segni Francese (LSF) la sua voce. Non per chiedere attenzione, ma per affermare un principio semplice e radicale: essere sordi non significa essere muti. Né, tantomeno, invisibili.
Da decenni, Emmanuelle rompe barriere. Nei teatri, nelle istituzioni, nelle scuole. Porta sul palco corpi e linguaggi che non seguono lo schema dominante. E lo fa con una grazia decisa, con quella presenza che non ha bisogno di suoni per farsi notare.
Nascere senza voce ma non senza mondo
Emmanuelle nasce nel 1971 a Parigi. È sorda profonda dalla nascita. In un’epoca in cui i sordi erano spesso educati alla “parola” con metodi forzati, la sua famiglia decide una strada diversa: le insegna fin da subito la lingua dei segni. È una scelta politica, culturale, affettiva.
Questo le permette di sviluppare da subito una relazione piena col mondo, con la propria identità, con la comunicazione. Non si sente “mancante”. Si sente semplicemente sé stessa.
A scuola, però, la realtà è diversa. Deve affrontare discriminazioni, barriere, incomprensioni. La società fatica ad accettare che un altro modo di comunicare sia altrettanto valido, altrettanto umano.
Il teatro come spazio di liberazione
Emmanuelle Laborit fin da giovane si avvicina al teatro. È attratta dalla possibilità di esprimersi con il corpo, con il ritmo, con la presenza. Scopre che la scena può essere uno spazio dove la lingua dei segni diventa poesia visiva. Non una traduzione. Ma una forma artistica autonoma.
A 20 anni debutta come attrice. Ma la svolta arriva nel 1993, quando recita nel film Marianna Ucrìa, diretto da Roberto Faenza, tratto dal romanzo di Dacia Maraini. Interpreta il ruolo di una giovane nobildonna sorda nel Settecento. Il film ha un grande successo. E Emmanuelle riceve il Premio Romy Schneider, prima attrice sorda a ottenerlo.
Da quel momento, la sua carriera si allarga. Lavora in teatro, in cinema, in televisione. Ma sempre alle sue condizioni. Sempre con la lingua dei segni come centro e non come “aggiunta”.
Non solo attrice, ma militante
Emmanuelle capisce presto che il suo lavoro non può essere solo artistico. Deve essere anche politico. La rappresentazione è importante, ma non basta. Bisogna creare spazi, strutture, accessi.
Nel 2003 diventa direttrice dell’IVT – International Visual Theatre, uno dei primi teatri in Europa interamente accessibile e dedicato alla cultura sorda. Qui produce spettacoli, organizza corsi, festival, eventi. Qui forma nuove generazioni di attori, udenti e non.
L’IVT non è solo un teatro. È un laboratorio culturale, un punto di riferimento internazionale. Un luogo dove la lingua dei segni non è tradotta, ma creata, messa in scena, rispettata.
La lingua dei segni come cultura
Uno dei temi centrali nel pensiero di Emmanuelle Laborit è che la lingua dei segni non è un codice di emergenza, ma una vera e propria lingua, con grammatica, sintassi, poesia. E, con essa, esiste una cultura sorda: con le sue espressioni, storie, tradizioni.
Questa visione va contro l’idea che la sordità sia solo un “problema medico”. Per Emmanuelle Laborit, la sordità è una differenza linguistica e culturale. Non un limite, ma un’identità.
Questo approccio le ha attirato anche critiche da parte di chi promuove esclusivamente l’integrazione attraverso l’oralismo o gli impianti cocleari. Ma lei non ha mai imposto una visione unica. Ha solo chiesto rispetto per ogni percorso, e piena dignità per chi sceglie la lingua dei segni.
Un’autobiografia che lascia il segno
Emmanuelle Laborit nel 1994 pubblica un libro autobiografico: Le cri de la mouette (Il grido del gabbiano). È un testo diretto, toccante, che racconta la sua infanzia, le sfide, la scoperta della propria identità. Diventa un bestseller in Francia, viene tradotto in diverse lingue.
Nel libro, Emmanuelle Laborit racconta senza filtri cosa significa crescere sorda in un mondo fatto per udenti. Ma anche la bellezza del mondo sordo: la ricchezza espressiva, la forza della comunità, la resistenza.
Scrive: “Il mio silenzio non è vuoto. È pieno di parole che si vedono.”
La scena che cambia
Emmanuelle Laborit negli ultimi anni, ha continuato a lavorare su progetti che mettono insieme teatro, accessibilità, educazione. Ha portato avanti la battaglia per il riconoscimento ufficiale della lingua dei segni in Francia (ottenuto nel 2005). Ha collaborato con registi, pedagogisti, linguisti.
Non si è mai chiusa nel ruolo della “testimone”. Ha agito. Ha spinto per avere interpreti nei programmi TV, per l’inclusione nelle scuole, per nuove leggi. E ha sempre detto che l’inclusione vera non si fa “aggiungendo” i sordi, ma partendo da loro.
Perché parlarne qui?
Perché Emmanuelle Laborit non corre, non nuota, non lotta su un ring. Ma ha spostato montagne con le mani. Con i gesti. Con la sua presenza scenica e civile.
Ha insegnato che la comunicazione è molto più di una voce. È intenzione, è corpo, è relazione. Ha dato dignità alla lingua dei segni, ha dato visibilità a una cultura intera. Ha detto: “non voglio essere capita, voglio essere considerata.”
Come il sottoscritto che , ha preso la parola a modo suo. Senza cercare applausi facili. Senza chiedere di essere “inclusa”. Ma portando il suo mondo dentro quello degli altri, senza chiedere permesso.
E in questo, il suo silenzio è diventato una voce potente. Che ancora oggi continua a parlare. Anche quando nessuno fa rumore.