In una maratona ci si affida alle gambe, al fiato, al cuore. Ma Carlo Durante correva con qualcosa in più: la fiducia. Fiducia in chi gli correva accanto. Fiducia nei propri passi, anche se nel buio. Carlo Durante è stato uno dei pionieri della corsa paralimpica in Italia, già negli anni ’90 quando lo sport paralimpico era ancora poco conosciuto nel nostro Paese. Cieco, ma mai fermo. La sua storia è una lezione concreta su cosa significa riprendersi il corpo e la vita quando il mondo attorno sembra non capirti.
Le origini e la perdita della vista
Nato nel 1946 a Longano, un paese dell’entroterra romagnolo, Carlo Durante viveva una vita semplice, da lavoratore. Faceva l’idraulico, aveva una famiglia, una quotidianità costruita su piccoli gesti. Poi, a 47 anni, tutto cambia: gli viene diagnosticata una retinite pigmentosa, una malattia degenerativa che gli porta via la vista. Il mondo si spegne, ma lui non si arrende. Passa attraverso uno smarrimento profondo, come spesso accade in queste storie. Poi un giorno un amico lo invita a provare a correre. Una proposta assurda, a prima vista. Carlo Durante non aveva mai corso prima. Ma dice sì. Infilati un paio di scarpe, lega il suo polso a quello di una guida, e parte. Quel primo passo, incerto e fuori da ogni logica, diventa il primo di una nuova esistenza.
Correre nel buio: la guida come estensione del corpo
Correre da ciechi non è solo uno sforzo fisico: è un atto di affidamento totale. La guida è una presenza costante, la cordicella che unisce è sottile ma decisiva. La voce della guida anticipa buche, ostacoli, curve. Ma il ritmo lo detta chi corre dietro. E Carlo Durante capisce subito che quella dimensione, fatta di ascolto e movimento, è la sua. All’inizio partecipa a qualche corsa amatoriale. Poi si allena sempre di più. Ogni giorno. Studia la postura, i tempi, il fiato. La corsa diventa una disciplina, un metodo per tornare padrone del tempo e dello spazio.
Dalle corse locali alle Paralimpiadi
Nel 1992 Carlo Durante arriva alle Paralimpiadi di Barcellona. Partecipa alla maratona nella categoria dei non vedenti. Parte in sordina, senza grandi attenzioni. Ma taglia il traguardo per primo. Medaglia d’oro. L’Italia sportiva lo scopre. I giornali parlano di lui. In molti cominciano a capire che lo sport paralimpico non è un “ripiego” o una vetrina di buoni sentimenti: è sport vero. Carlo Durante corre anche ad Atlanta nel 1996, dove conquista l’argento. A Sydney nel 2000 porta a casa il bronzo. E ad Atene, nel 2004, a quasi sessant’anni, è ancora lì. Non vince, ma c’è. E conta.
Oltre le medaglie: un messaggio di parità
La carriera di Carlo Durante non è fatta solo di risultati. È fatta di presenza. Di scelte chiare. Carlo Durante rifiuta di correre in eventi separati dai normodotati. Vuole stare sulla stessa linea di partenza. Vuole un pettorale regolare. Non per fare clamore, ma per essere riconosciuto. Non chiede privilegi, chiede parità. Vuole essere giudicato per i suoi tempi, non per la sua condizione. Questo modo di pensare e agire lo rende un riferimento. Per altri atleti ciechi. Per le federazioni. Per gli organizzatori di gare che, grazie a lui, iniziano a ripensare regole e spazi.
Insieme ad Alex Zanardi: due mondi, una visione
Molti lo ricordano anche per il legame con Alex Zanardi. Due mondi diversi: Zanardi sull’handbike, ex pilota. Carlo Durante legato a una guida, in corsa. Eppure, insieme, diventano simbolo di un’altra idea di sport. Hanno corso la Maratona di Roma e tante altre gare. Uniti dal rispetto, da una visione comune. Zanardi ha raccontato più volte come correre con Carlo Durante fosse un’esperienza senza finzioni. C’era solo fatica vera. Nessun ego. Nessuna scena. Solo la strada, da fare insieme. Un passo dopo l’altro.
La forza della semplicità
Il messaggio di Carlo Durante passa anche attraverso il modo in cui parlava. Diretto, mai patetico. Diceva: “Io corro perché mi fa stare bene. Punto.” Questa semplicità, questa concretezza, ha avuto più forza di mille slogan. Ha mostrato che la disabilità non è un ostacolo in sé. Lo diventa solo se il contesto la rende tale. E lui, quel contesto, ha iniziato a cambiarlo.
L’eredità che continua a correre
Negli anni, tante persone cieche hanno iniziato a correre. Tanti hanno trovato il coraggio proprio guardando Carlo Durante. E anche tra i vedenti, c’è chi ha cominciato a fare da guida grazie al suo esempio. Quella cordicella che unisce due corpi in corsa è diventata simbolo di fiducia reciproca. Di collaborazione. Di presenza. In molti, oggi, conoscono il nome Carlo Durante proprio perché quella corda continua a passare di mano in mano, tra chi ha il coraggio di fidarsi e chi decide di esserci davvero.
La fine della corsa, il segno lasciato
Carlo Durante è morto nel 2016. Aveva 69 anni. Se n’è andato in silenzio, com’è vissuto. Ma ha lasciato un segno profondo. Ogni volta che in una gara un atleta cieco si lega a una guida, in quella corda c’è anche lui. Ogni volta che qualcuno corre per trovare un senso, c’è anche lui. Perché Carlo Durante non correva solo con il corpo. Correva con l’idea che il buio non è mai la fine. Se impari ad ascoltarlo.
Una lezione che resta viva
Oggi parlare di Carlo Durante non è solo un dovere della memoria. È un modo per capire che lo sport può essere davvero uno spazio aperto. Uno strumento di emancipazione. Una dichiarazione di esistenza. Carlo Durante ha trasformato la corsa in qualcosa di più di una gara: in una scelta di vita. Se oggi conosci la sua storia, condividila. Perché ogni corsa inizia anche da un racconto che vale la pena ascoltare. Una direzione presa controvento, controcorrente. Con ostinazione e con dignità.
Carlo Durante non ha cercato applausi. Ha cercato la sua strada. E l’ha trovata. Anche quando non poteva vederla. Per questo, oggi, a distanza di anni, il suo nome è ancora vivo. Non solo nelle statistiche. Ma nei cuori. Nelle scarpe consumate degli atleti che partono, in silenzio, su strade lunghe. E non si fermano più.