Il suo primo amore è il calcio, ma la storia di Ibrahim Hamadtou inizia in un piccolo villaggio dell’Egitto, e prende una svolta drammatica quando, a soli dieci anni, viene coinvolto in un incidente ferroviario. Una caduta tra i binari. Un momento che cambia tutto. I medici sono costretti ad amputargli entrambe le braccia. La vita che conosceva finisce lì. Ma una nuova, del tutto inaspettata, comincia.
Dopo l’incidente, molti si sarebbero chiusi in casa. Non lui. Ibrahim, pur devastato, rifiuta di rinunciare a muoversi, giocare, vivere. Cerca uno spazio per tornare a sentirsi vivo. E lo trova, quasi subito, in una palla che rotola.
Il calcio come primo rifugio
Il primo amore sportivo di Ibrahim è il calcio. Giocare con i piedi diventa una forma di libertà. Con il pallone tra le gambe può correre, dribblare, tirare. Si unisce ai bambini del quartiere senza mai sentirsi fuori posto. Nessuna mano, ma gambe forti, testa lucida, voglia di partecipare. Il campo polveroso diventa il suo terreno di riscatto.
Il calcio, per lui, non è solo sport: è identità, è gruppo, è respiro. È il primo spazio in cui non conta cosa manca, ma cosa c’è. E Ibrahim c’è, eccome. Gioca, ride, cade, si rialza. Impara a usare il corpo come un tutto armonico, a compensare l’assenza con ingegno e volontà.
Il giorno in cui tutto cambia di nuovo
Passano gli anni. Ibrahim cresce, continua a giocare a calcio con gli amici, si allena con costanza. Ma un giorno, per caso, vede due persone giocare a tennis tavolo. Si ferma. Li osserva muoversi rapidi, coordinati. In testa gli scatta qualcosa. Una curiosità che diventa decisione: “E se provassi anch’io?”
All’inizio sembra uno scherzo. Un uomo senza braccia che vuole giocare a ping pong? Nessuno prende sul serio l’idea. Nemmeno chi gli è vicino. Ma Ibrahim è già partito con la mente. Il calcio gli ha insegnato che ogni cosa può essere adattata. Basta provarci.
I primi colpi
Inizia da solo. Prende una racchetta, la tiene con la bocca. Prova a colpire. Si esercita per ore. La cervicale gli fa male. La mandibola si affatica. Ma ogni giorno migliora un po’. Trova una posizione. Scopre come dosare la forza. Il primo obiettivo è semplice: far passare la pallina dall’altra parte.
Il calcio gli aveva dato il movimento. Ora il tennis tavolo gli chiede precisione. Lavora sul respiro, sull’equilibrio, sul tempismo. Deve imparare tutto da zero, ma non lo spaventa. Anzi. Lo motiva.
Dai piedi alla bocca: una tecnica mai vista
Ibrahim sviluppa uno stile di gioco unico al mondo. Tiene la racchetta con la bocca. Usa il piede per lanciare la pallina all’inizio di ogni punto. Piega il corpo, colpisce, torna in posizione. Il collo e la schiena si piegano in modo controllato. È una coreografia precisa, faticosa, ma efficace.
Ogni gesto è il risultato di centinaia di tentativi. Ogni punto è una dichiarazione di indipendenza. Non vuole pietà, né sconti. Vuole solo giocare come gli altri. Con regole uguali.
L’arrivo alle competizioni
Dopo anni di allenamento in solitaria, arriva il momento del confronto. Partecipa a tornei locali, poi nazionali. Il suo stile incuriosisce, stupisce, conquista. All’inizio viene accolto con scetticismo. Poi con rispetto. La sua tecnica non è un’esibizione. È efficace. E lui è un atleta vero.
Il calcio resta nel cuore, ma ora è il tennis tavolo a guidarlo. Ogni giorno si allena per ore. Cura la preparazione fisica, la mobilità, la resistenza. Lavora anche sulla strategia, sullo studio degli avversari. Non ha braccia, ma ha una visione di gioco acuta.
La ribalta mondiale
Nel 2014 partecipa ai Mondiali Paralimpici in Cina. Un video della sua partita viene pubblicato online e diventa virale. In pochi giorni, milioni di persone in tutto il mondo lo guardano colpire la pallina con la bocca. I commenti si moltiplicano. La stampa internazionale lo intervista. I media lo definiscono “incredibile”, “ispirazione”, “leggenda”.
Ma lui, come sempre, resta sobrio. Dice solo: “Non ho mai pensato che fosse impossibile. Ho solo cercato il mio modo.” E nel frattempo, continua a giocare.
La consacrazione alle Paralimpiadi
Nel 2016, Ibrahim rappresenta l’Egitto alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro. In una foto diventata celebre, si piega per servire la pallina col piede, mentre tiene la racchetta in bocca. L’avversario lo guarda con stupore e ammirazione. Non è uno spettacolo. È competizione vera.
A Rio non vince una medaglia, ma vince molto di più. Dimostra che la tecnica, la costanza e il coraggio possono creare un nuovo spazio nel mondo dello sport. Nel 2021 partecipa anche a Tokyo. Ancora una volta, la sua presenza lascia il segno.
Oltre il campo
Ibrahim non è solo un atleta. È anche padre, marito, uomo di comunità. Parla nelle scuole, partecipa a eventi sportivi e culturali. Incoraggia giovani con disabilità a trovare la propria strada. Usa la sua storia non per farsi applaudire, ma per aprire porte.
Il calcio, che aveva segnato il suo primo ritorno alla vita, torna spesso nei suoi discorsi. Lo nomina con affetto. Dice che è stato il primo sport a fargli sentire di nuovo un corpo intero. Poi, certo, è arrivato il tennis tavolo. Ma il calcio resta il punto di partenza.
Allenamento e fatica
Dietro ogni partita ci sono ore di allenamento. Muscoli della schiena rafforzati, coordinazione tra bocca e gambe, controllo del respiro. La sua postura deve essere precisa. I movimenti millimetrici. Dopo ogni gara, la stanchezza è doppia. Ma lui non si lamenta mai. Dice che ogni goccia di sudore vale la libertà che sente in campo.
Un esempio senza retorica
Ibrahim non vuole essere un “esempio” nel senso retorico del termine. Vuole essere visto come atleta, punto. Non un miracolo ambulante, non una storia strappalacrime. Solo un uomo che ha preso ciò che aveva e lo ha trasformato. Come quando, da ragazzo, correva su un campo da calcio e non pensava a ciò che mancava, ma a come segnare.
Perché parlarne qui
Nel mio blog, la storia di Ibrahim Hamadtou ha un posto preciso. È la storia di chi non si ferma davanti al “non puoi”. Di chi si inventa un modo per esserci. Di chi non ha braccia, ma ha un cuore, una testa e una volontà che valgono molto di più.
È la storia di chi ha fatto del limite un gesto tecnico, del corpo una possibilità, della fatica un ritmo.
E mentre colpisce la pallina con la bocca, c’è tutto: forza, precisione, dignità.
Non cerca pietà. Cerca rispetto. E lo ottiene.