Mi capita spesso di riflettere su una domanda che può sembrare semplice, ma che nasconde una verità scomoda: la disabilità è davvero inclusa nella nostra società o semplicemente tollerata?
Chi, come me, vive ogni giorno sulla propria pelle la disabilità, sa bene che la risposta non è così scontata. Dietro gli slogan, le iniziative, le leggi, c’è una realtà fatta di compromessi, di sguardi abbassati, di barriere che resistono anche dove non dovrebbero più esserci. E su questo voglio fermarmi oggi: non per accusare, ma per raccontare.
La rampa c’è, ma la porta è chiusa
Quante volte mi è capitato di vedere un locale che “rispetta le norme” solo sulla carta? Una rampa che finisce contro una soglia altissima, un bagno “accessibile” ma usato come magazzino, un ascensore troppo stretto per passarci.
Ecco la differenza tra essere inclusi ed essere semplicemente sopportati. Io non voglio entrare da una porta secondaria. Non voglio “un favore”. Voglio vivere la mia disabilità con dignità, senza dover ringraziare nessuno per qualcosa che dovrebbe essere normale.
Il problema non è la carrozzina
Il vero problema non è la mia carrozzina, ma lo sguardo con cui viene accolta. In troppi, ancora oggi, quando mi vedono pensano “poverino”. Ma io non ho bisogno di compassione. Ho bisogno di rispetto.
Non sono triste. Non sono rotto. Sono semplicemente una persona che vive la propria vita in modo diverso. E invece, troppe volte, il mio spazio viene visto come un’eccezione. Come se ogni accesso garantito, ogni diritto riconosciuto, fosse un regalo. Non lo è. È la base.
Inclusione vera significa partecipazione
Inclusione non vuol dire solo permettermi di entrare. Significa farmi partecipare. In palestra, nei trasporti, nelle maratone, al lavoro, nelle scuole. Non mi basta “esserci”: voglio contare.
Quando organizzi eventi sportivi, iniziative culturali o percorsi formativi, chi vive la disabilità viene coinvolto solo dopo, a cose fatte, per “completare il quadro”. Ma non siamo una nota a margine, siamo parte del racconto.
Parlare con noi, non per noi
Non serve parlare di disabilità se chi la vive ogni giorno non è ascoltato. Troppe decisioni vengono prese senza chiederci nulla. Troppi convegni senza relatori disabili. Troppe discussioni dove si parla “di” noi, ma non “con” noi.
Io non voglio che altri parlino al mio posto. Voglio essere parte del tavolo. Voglio poter dire la mia, anche quando è scomoda, anche quando rompe l’equilibrio finto di chi pensa che tutto vada bene così.
I luoghi comuni che ancora resistono
Ti racconto qualche perla vera che mi sono sentito dire:
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“Ma tu lavori? Davvero?”
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“Sei sempre così sorridente, nonostante la disabilità!”
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“Che bravo, fai sport anche tu!”
Frasi che sembrano gentili, ma che in realtà mostrano quanto sia ancora lontana una cultura realmente inclusiva. Come se una persona disabile dovesse per forza stare a casa, passiva, in attesa che qualcuno si occupi di lei.
Io lavoro, corro, faccio sport, mi arrabbio, amo, sogno. La mia disabilità è parte di me, ma non è tutto quello che sono.
La fatica invisibile
Uno degli aspetti più ignorati della disabilità è la fatica mentale. Ogni giorno devo pensare in anticipo a tutto:
Ci sarà una rampa?
Ci sarà l’ascensore?
Il bagno sarà accessibile?
Ci sarà parcheggio?
Per molti queste domande non esistono, per me sono routine. Ed è stancante. È come vivere in una società che non ha pensato anche a te. Dove ogni gesto è il doppio del lavoro. Dove devi continuamente adattarti, mentre gli altri non si adattano mai.
Le barriere peggiori sono quelle culturali
Le barriere architettoniche si vedono. Quelle culturali no, ma sono più resistenti. Sono le frasi non dette, i silenzi nei colloqui di lavoro, le mani che non ti salutano. Sono le persone che abbassano lo sguardo, che ti evitano, che si sentono a disagio davanti alla tua carrozzina.
La disabilità non è contagiosa. Ma il pregiudizio sì. E si diffonde proprio quando si finge che non esista.
Serve una rivoluzione gentile
Non chiedo pietà, ma coraggio. Il coraggio di cambiare approccio, di vedere la disabilità come un valore e non come un limite. Di smettere di usare parole vuote come “inclusione” se poi nella pratica continuiamo a escludere.
La vera rivoluzione parte dai gesti semplici: una scuola che apre le porte al confronto, un’azienda che assume senza paura, un evento sportivo che ti considera una risorsa, non un problema.
E tu, da che parte stai?
Questo è il momento per scegliere. Non si può più restare neutrali. Se davvero crediamo in una società per tutti, allora dobbiamo costruirla insieme.
La disabilità non è un mondo a parte. È parte del mondo. E io sono stanco di doverlo dimostrare ogni volta.